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27/05/2025Intervista a Felice Casson a cura di Claudio La Camera
In Italia i disastri ambientali degli ultimi decenni hanno cambiato la sensibilità della società civile. Cittadini e familiari delle vittime hanno chiesto il cambiamento delle politiche industriali e denunziato i danni alla salute delle persone. Grazie all’approvazione in Parlamento del disegno di legge che prevede la modifica dell’’art. 9 e 41 della Costituzione, l’ambiente, la biodiversità, gli ecosistemi e gli animali sono maggiormente tutelati.
È un’opportunità per promuovere una maggiore responsabilità politica e sociale verso l’ambiente e per rilanciare il ruolo della società civile e del settore privato.
Felice Casson, ex magistrato e politico, è particolarmente impegnato nel promuovere un’attività di sensibilizzazione sui temi legati alla protezione dell’ambiente e i diritti delle vittime di tragedie.
Come è nato il tuo impegno sociale e politico a tutela dell’ambiente?
Alcuni anni fa ero stato invitato a un dibattito a Longarone in occasione dell’anniversario della tragedia del Vajont. L’organizzazione veniva fatta da persone che già si occupavano di vittime di reato e comunque di vittime di tragedie perché c’erano, ad esempio, i rappresentanti di alcune associazioni di vittime di tragedie come quella della nave Moby Prince, del treno di Viareggio, i morti di amianto di Casale Monferrato e altre vicende simili. L’incontro era stato organizzato con l’intenzione di creare un gruppo di lavoro che potesse occuparsi delle vittime sotto vari profili, da quello politico, a quello sociale oltre che medico e sanitario. A seguito dell’incontro a Longarone, decidemmo di far un’associazione che venne chiamata “Noi 9 ottobre” perché riguardava appunto l’anniversario della tragedia del Vajont.
Il movimento lavora da un lato sul passato e sulla vittimizzazione ma lavora anche sul presente. Ogni anno organizziamo gli stati generali delle vittime di reato con la partecipazione dei rappresentanti delle associazioni proprio per creare nuove dinamiche e tenere la questione viva. Se fai pressione la politica ti segue.
Quali sono le iniziative avanzate da questa rete?
L’idea era quella di preparare un testo con proposte concrete da presentare al Parlamento e al Governo. È stato redatto un documento con tre principali proposte in campo giuridico riguardanti una modifica della Costituzione e in particolare l’inserimento delle vittime all’interno della Costituzione italiana. Questo perché quando è stata fatta la riforma del giusto processo, in fase di costituzione, le parti processuali contemplate erano soltanto pubblico ministero e imputato e le vittime sono sempre state escluse.
La loro ammissione gli consente di fare ricorso in tutte le situazioni in cui si nota una disparità di trattamento da un punto di vista processuale.
Un’altra proposta era quella di creare una Procura nazionale in materia ambientale e in materia di tutela della salute. Spesso abbiamo visto che le procure, gli organi inquirenti ma anche la magistratura, sono poco sensibili o non hanno conoscenza di queste materie che sono molto tecniche e richiedono una preparazione specifica anche da un punto di vista investigativo. Tanto è vero che questi processi sono tra i più difficili da fare per motivi tecnici complessi e spesso, purtroppo, per la malavoglia di alcuni magistrati. Di fronte alla scalata di una montagna giuridica così impervia, i magistrati spesso hanno mollato l’interesse prima di cominciare a fare le indagini e invece ci vorrebbe un ufficio con persone specializzate in materia.
Dall’altro lato ci stanno le grandi potenze economiche.
Sì, perché quando si comincia un processo del genere, ti trovi dall’altra parte i rappresentanti delle grandi industrie multinazionali italiane e mondiali. Basti pensare al settore dell’amianto, della chimica, della petrolchimica di Porto Marghera dove arrivano avvocati, consulenti di livello mondiale, strapagati. Non c’è un paragone tra quello che può pagare una Procura della Repubblica rispetto a quello che pagano i privati.
Rimangono cambiamenti significativi da affrontare per garantire una protezione adeguata alle vittime?
Certamente. Ad esempio serve una modifica delle norme del codice sulla figura della vittima di reato e quindi sulla parte offesa del reato, sulle parti civili e sui loro rappresentanti. Chi ha esperienza di aule processuali, si rende conto che anche da parte di una certa magistratura, le vittime e i rappresentanti delle vittime sono visti come dei pesi morti, come delle figure che non c’entrano niente con i processi.
Tra l’altro va ricordato che parti offese di questi reati sono anche associazioni come Medicina Democratica e le associazioni ambientaliste.
Grazie a loro è stato possibile portare avanti indagini molto difficili che un lavoratore non è in grado di fare perché si tratta di ricerche molto complesse e onerose.
La tutela della vittime potrebbe essere estesa anche all’aspetto sanitario e sociale?
Senza dubbio. Quando, come magistrato, ho seguito il processo a Venezia sulla questione dell’amianto, le vittime hanno avuto assistenza e visite mediche gratuite regolari per prevenire casi di cancro e intervenire in tempo per le cure. L’assistenza è stata estesa anche ai familiari delle vittime che si sono a loro volta ammalati.
La politica mostra attenzione verso il problema della tutela delle vittime?
A parole sì ma poi di fatto non c’è interesse, di fatto non cambiano le norme perché c’è una sottovalutazione del fenomeno. La tutela delle vittime non rientra tra le priorità del mondo della politica. All’inizio della mia esperienza come senatore, con la legge finanziaria del 2007, siamo riusciti a fare entrare in leggi finanziarie un emendamento a mia prima firma, ma poi firmato da tanti altri senatori, per creare un fondo vittime dell’amianto. Il fondo all’inizio è stato boicottato dall’allora ministro del governo Berlusconi. Ricordo che riuscimmo a farlo attivare dopo aver insistito per tre anni con continue interrogazioni parlamentari. Ci saranno sicuramente degli aspetti da sistemare perché ad esempio inizialmente riguardava solo le vittime d’amianto sul lavoro, ma noi sappiamo benissimo che le vittime d’amianto sono anche fuori dai luoghi di lavoro. Un esempio fu il processo che abbiamo fatto contro Fincantieri. C’erano le mogli di tre lavoratori, della fabbrica Breda Fincantieri di Porto Marghera. La perizia ha riconosciuto che quelle donne si erano ammalate di mesotelioma pleurico e poi sono morte perché per 20-30 anni avevano lavato e stirato i vestiti di lavoro dei mariti.
Ci sono alcune di queste stragi che sono arrivate a una verità?
Sì però ce ne sono altre che invece rimangono nel buio. Rimangono solo le vittime.
L’Associazione si occupa anche di tenere i riflettori accesi su queste stragi?
Sono due aspetti diversi. Un conto è l’attività processuale; lì ci sono degli avvocati che seguono le associazioni come Medicina Democratica. Si tratta di processi difficili in cui, alle volte i magistrati prendono delle cantonate giuridiche su materie molto tecniche come l’amianto. Questo è un aspetto importante della vicenda che è separato rispetto all’altro che riguarda la tutela delle vittime anche al di fuori del processo, cioè per il riconoscimento del proprio diritto ad avere un risarcimento e una tutela come l’assistenza psicologica o medica.
Come si possono controllare le attività inquinanti visto che cambiano i cicli di produzione, i prodotti e le sostanze?
Secondo te c’è un modo per creare un sistema che possa migliorare il monitoraggio, visto che l’Italia non è un paese con una grande estensione territoriale?
Forse la cosa che sto per dire riguarda più la questione dei rifiuti, però farei già adesso una diversificazione tra quello che possiamo definire il circuito legale, l’attività legale ordinaria di chi gestisce tutta una serie di attività economiche che producono inquinamento, da quella che è l’attività illegale vera e propria che poi sconfina nell’ecomafia. Sono due aspetti diversi perché c’è un problema di gestione del rifiuto in senso lato che ha a che fare con l’attività ordinaria. Pensiamo ad esempio ai rifiuti delle attività edilizia. Quelli ci saranno sempre. Le norme sono troppe, sono spesso contrastanti e creano anche una confusione notevole all’imprenditore che, con mala o buona fede, preferisce liberarsi illegalmente dei rifiuti piuttosto che sopportare costi e ritardi. La legge favorisce questa forma di illegalità. È necessario avere un insieme di norme che siano chiare, ben definite per tutti quanti, per chi svolge attività economica e per chi dà la concessione, l’autorizzazione e così via. E questo dovrebbe avvenire nella massima trasparenza. Quando le norme sono semplici anche il monitoraggio diventa più semplice. Poi c’è un’altra mania che è quella di penalizzare tutto.
È sbagliato; non si può pensare che il codice penale risolva tutte queste situazioni. Alle volte sarebbe molto più utile intervenire con una norma amministrativa di immediata applicazione che non presenta le lungaggini di un processo penale.
Sul fronte delle ecomafie come si evolve il mercato?
Il problema delle ecomafie e delle mafie in generale è che l’intelligenza mafiosa, chiamiamola intelligenza in senso lato, arriva prima degli inquirenti, prima dei politici a capire dove c’è il business.
Abbiamo plurime indicazioni che derivano da intercettazioni telefoniche nei confronti di mafiosi e camorristi che hanno anche dichiarato poi davanti ai pubblici ministeri, che il loro interesse oltre la droga e le armi e la prostituzione sono principalmente i rifiuti. C’è una parte di questa attività criminale e mafiosa che sconfina nella parte legale e quindi in tutto quello che ha a che fare con concessioni e autorizzazioni e che aumenta il sistema della corruzione. Poi c’è l’attività mafiosa vera e propria che utilizza dei canali anche internazionali per sfuggire al controllo. Un esempio è il traffico delle armi. Se non riuscivi a far arrivare le armi in un certo paese estero, utilizzavi il sistema della triangolazione, cosa che si fa anche coi rifiuti. È un’attività molto complessa e gli organi inquirenti spesso non sono dotati di meccanismi e di mezzi di intervento rapidi ed efficaci.
Sei d’accordo sul fatto che c’è non solo una sensibilità diversa della società civile ma anche un attivismo diverso?
Sì, certamente, non ho alcun dubbio perché l’ho visto direttamente anche all’interno delle vicende processuali che ho trattato a Venezia e che riguardavano non solo il grande processo petrolchimico, ma anche i processi di amianto, i processi per l’inquinamento delle Alpi e della laguna. E se negli anni Ottanta o primi anni Novanta, la sensibilità era ancora molto scarsa, quando ci sono state queste vicende processuali la situazione è cambiata. Direi che questo è un processo storico evidente. Se noi pensiamo ad esempio che nella nostra Costituzione entrata in vigore il 1° gennaio 1948, non c’era la parola ambiente, ci rendiamo conto di quanto sia cambiata la realtà.
Per avere qualche indagine in materia ambientale, abbiamo dovuto aspettare gli anni Sessanta con i cosiddetti pretori di assalto, con gli interventi di qualche procura generale della Corte dei Conti, del Consiglio di Stato a tutela del bene paesaggio, a tutela del bene salute, non ancora del concetto di ambiente. Basti pensare che ancora nel 1962 il piano regolatore generale di Venezia consentiva la presenza di industrie pericolose, insalubri, a Marghera in nome del progresso. Adesso è cambiato.
Purtroppo la decisione di cambiare è arrivata quando sono emersi gli ammalati, i morti, i fiumi inquinati, il mare inquinato, i disastri ambientali. C’è ancora molto da fare.
Quali sono per te i nuovi fronti della sensibilizzazione sul tema ambientale?
È evidente che il sistema economico mondiale tende sempre di più verso il potenziamento dei sistemi produttivi. La produzione aumenta, crea nuovi bisogni e inevitabilmente produce più inquinamento. L’azione culturale della società civile dovrebbe stimolare la politica ad occuparsi di più delle esigenze dell’essere umano.
Chi comanda la politica economica e finanziaria?
La politica industriale in Italia non la fanno i politici, la fa l’industria.
Fino a quando la politica non riprenderà un ruolo di comando spinta, se vogliamo costretta dai cittadini, dalle forze sociali, politiche e ambientaliste, non ci sarà un vero cambiamento. I movimenti giovanili vanno in strada e contestano che la politica non fa niente. Hanno ragione. Se noi stiamo a guardare quando succede una tragedia in Italia, anche di recente, con dei morti per questioni ambientali, ci accorgiamo che tutti piangono, versano lacrime di coccodrillo ma non cambia niente.
Allora finché la questione natura e ambiente non diventa davvero la priorità non cambierà niente, cioè non bisogna aspettare di avere il morto per cambiare qualche cosa.
Come giudichi la recente modifica costituzionale?
Mi sembra importante l’inserimento della questione salute, tutela dell’ambiente, tutela della biodiversità, un concetto biocentrico nella nostra Costituzione e di una iniziativa economica privata che deve rispettare in primo luogo la salute, la dignità, l’integrità della persona e dell’ambiente prima del profitto. La prospettiva costituzionale è cambiata. Questa modifica italiana non è una cosa inventata per la prima volta. Basta pensare alle costituzioni di alcuni paesi dell’America Latina come Bolivia e Perù. Adesso ci sono questi concetti in costituzione, poi bisognerà tradurli in leggi e norme ordinarie.
Questa è la strada. I latini dicono, Primum vivere deinde philosophari, nel senso che dobbiamo pensare prima a quello che si fa e si farà, al fatto che le azioni dannose mettono in pericolo la vita della natura intesa non solo come alberi, acqua, mare, territorio, ma anche come persona e per le generazioni future. Se c’è un rischio di mettere in pericolo il futuro si deve bloccare tutto prima di cominciare. Non come succede adesso che devi fare prima i morti, gli ammalati e poi forse cambia qualcosa.
Ragionando per assurdo, per concludere su questo concetto del primo vivere, occorre creare le condizioni affinché si possa facilitare Il legame del cittadino col territorio. Mi riferisco al rapporto che si è perso con la terra per vari motivi, per la questione delle migrazioni, per la questione dell’industrializzazione, eccetera. È quello che sostiene Carlo Petrini, se noi riusciamo anche con riforme legislative a favorire questo di avvicinamento dell’uomo alla terra, in automatico forse questa sensibilità cambierà.
Le grandi opere si inseriscono in questa logica perversa della devastazione del territorio?
Non c’è dubbio. E però continuano ad andare molto di moda.
Per quello dicevo prima, per dei politici che parlano molto e non fanno mai niente. Il fatto di utilizzare la normativa sulle grandi opere consente di superare tante norme, tanti vincoli, di accelerare i tempi, di avere subito una barca di soldi a disposizione. Bisogna prevenire queste situazioni, perché quando si arriva ad avere i morti in fabbrica, sotto una diga, col treno, sull’autostrada, questo vuol dire che sei già arrivato tardi, vuol dire che la politica e l’amministratore hanno già fallito nel loro compito, che è quello di tutelare il cittadino.